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Immagine del redattoreDott.ssa Margherita Zorzi

“È complicato”: il rapporto tra cervello, coscienza e emozioni umane.

Un dialogo con il neuroscienziato Joseph LeDoux.


Di Paolo Pecere*, Il Tascabile, Scienze, 14/01/2020


IMMAGINE: FRANCIS BACON, RITRATTO, 1977-1992 (DETTAGLIO)

* Paolo Pecere si occupa di filosofia e letteratura. Tra i suoi saggi "La filosofia della natura in Kant" (2009) e "Dalla parte di Alice. La coscienza e l'immaginario" (2015). Suoi racconti sono comparsi su "Nazione indiana" e "Nuovi argomenti". Ha pubblicato due romanzi, "La vita lontana" (2018) e "Risorgere" (2019), e il manuale "Filosofia. La ricerca della conoscenza" (2018, con R. Chiaradonna)

 

Oggi c’è un’ampia letteratura su come il cervello “produce” più o meno ogni aspetto dell’esperienza umana, dall’amore all’arte, dalla matematica al ragionamento economico. Progetti di ricerca come lo Human Brain Project mirano a individuare le basi fisiche di tutti i nostri processi mentali. Questi ambiziosi obiettivi sono stati formulati grazie allo sviluppo, negli ultimi trent’anni, di nuove tecniche sperimentali che permettono di osservare e stimolare, con metodi innocui, l’attività di aree cerebrali e finanche singoli neuroni in soggetti vigili, che possono al tempo stesso riportare le proprie esperienze.

Eppure questo collegamento tra esperienza e processi cerebrali sembra avere una complessità che si perde quando alcuni divulgatori e alcuni scienziati parlano un linguaggio seccamente riduzionista, come quando Francis Crick dichiarò: “Tu sei il tuo cervello”. Sempre più, negli ultimi anni, tra gli scienziati che si occupano di mente e cervello si è riconosciuto che il rapporto tra l’esperienza cosciente, il comportamento e i processi cerebrali pone questioni teoriche che non si risolvono soltanto con l’acquisizione di osservazioni più precise del cervello.

Tra i protagonisti della ricerca contemporanea, Joseph E. LeDoux è stato fin dall’inizio della sua carriera attentissimo a questo aspetto teorico della neuroscienza cognitiva. LeDoux insegna alla New York University, dove dirige l’Emotional Brain Institute. Fin dal dottorato con Michael Gazzaniga ha dedicato le sue ricerche ai circuiti neurali responsabili della sopravvivenza e al rapporto tra cervello, coscienza e emozioni. Oltre a innumerevoli articoli specialistici ha pubblicato The Integrated Mind (1978, con Michael Gazzaniga), dove si dedica al problema di come si formi una coscienza unitaria a partire dai miliardi di cellule cerebrali e approfondisce il tema dei pazienti split brain, quelli che a seguito di una separazione chirurgica dei due emisferi cerebrali sembrano possedere due coscienze distinte. Il tema di come la coscienza emerga dal cervello è stato poi sviluppato in Il cervello emotivo (1998, in Italia per Baldini & Castoldi), Il Sé sinaptico (2002, Raffaello Cortina), Ansia (2015, Raffaello Cortina), sempre a partire dal caso particolare delle emozioni, a cui LeDoux ha dedicato contributi fondamentali. L’ultimo libro di LeDoux è The Deep History of Ourselves. The Four-Billion-Year History of how we got conscious brains (2019), una ampia storia evolutiva della vita che affronta la questione di quali siano state le prime forme di vita coscienti. Le Doux è anche cantautore e lead vocalist del gruppo rock The Amygdaloids. In questa conversazione, partendo dal caso delle emozioni, ripercorriamo l’intero arco di questi problemi.


Paolo Pecere: Di recente hai scritto che c’è una diffusa e cruciale incomprensione nello studio neuroscientifico del comportamento e dell’emozione. Puoi spiegare di che si tratta?


Joseph E. LeDoux: Ti faccio un esempio. Quando stai facendo qualcosa, come essere umano di solito ti rendi conto in qualche modo del perché ti comporti così. William James, l’autore di un classico come i Principi di psicologia (1890), è noto per la sua teoria secondo cui le emozioni non sarebbero causa di reazioni corporee e comportamenti, ma sarebbero suscitate da una precedente reazione fisiologica che innesca il comportamento. Per esempio, James si è chiesto perché scappiamo dall’orso e si è risposto che non lo facciamo perché abbiamo paura, ma che è il feedback che proviene dal corpo quando percepiamo l’orso a renderci impauriti. In altre parole, non è la paura la causa dell’atto di scappare. Al contrario, abbiamo paura perché scappiamo via.

Io sono parzialmente d’accordo con James: sono d’accordo con lui che non è la paura la causa del fatto che scappiamo dai pericoli, ma non sono d’accordo sul fatto che la nostra paura sia prodotta dal fatto che stiamo scappando. In realtà, quando abbiamo paura di qualcosa di pericoloso facciamo due cose diverse: abbiamo paura e nello stesso tempo scappiamo.

Dato che queste due cose avvengono simultaneamente assumiamo che abbiano una causa comune. Ma dal punto di vista della neuroscienza sono coinvolti due sistemi ben distinti: uno si è sviluppato per rispondere a cause di pericolo con un determinato comportamento; l’altro – sviluppatosi più di recente nel corso dell’evoluzione biologica – produce i nostri sentimenti coscienti, come la paura. In altre parole, le nostre esperienze coscienti avvengono parallelamente all’attività di quel sistema più antico che guida certi comportamenti.

Tuttavia, a volte le nostre esperienze coscienti sono cause del comportamento e, dato che in questi casi abbiamo il controllo, attribuiamo tutti i comportamenti al nostro controllo cosciente (con l’eccezione dei riflessi e delle reazioni innate). In questo caso, diamo troppo poco peso al fatto che alcuni nostri comportamenti – come aveva capito James – sono indipendenti dalla coscienza. Penso quindi che nello studio del rapporto tra cervello e emozioni ci sia un problema di attribuzione: una confusione tra rapporto causa-effetto e correlazione tra processi simultanei. Quando studiamo scientificamente questi processi realizziamo che i sistemi che generano il comportamento primitivo e quelli che generano l’esperienza sono sistemi diversi.


PP: Ti sei occupato a lungo di paura e hai studiato le risposte di diversi animali in situazioni di pericolo. L’evidenza sperimentale porta a collegare una piccola parte del cervello, l’amigdala, con queste reazioni. E questa scoperta ha portato all’idea che l’amigdala sia all’origine della paura. Di recente, stavo guardando il documentario vincitore dell’Oscar, Solo, sul free climber americano Alex Honnold. In una scena, il cervello di Honnold viene esaminato con una risonanza magnetica funzionale e appare la neurologa Jane Joseph per dire che la amigdala di Honnold non sembra rispondere normalmente a immagini orribili o disgustose, e questo spiegherebbe la sua assenza di paura quando si arrampica senza attrezzatura. Mi sembra che anche qui si nasconda l’incomprensione di cui parlavi prima. Qual è il modo corretto di concepire i correlati neurali della paura?


JLD: Per semplificare il discorso poniamo che questi risultati siano corretti – che in situazioni di pericolo, come arrampicarsi su una parete rocciosa a mani nude, l’amigdala di Alex Honnold non sia molto attiva. Di solito si presume che, posto che l’attività dell’amigdala sia bassa, lui abbia poca paura (o non ce l’abbia affatto). Ma, in base a quello che ho detto prima, l’amigdala non è il centro della paura.

Poiché la paura è un’interpretazione cognitiva della situazione, una specie di aspettativa, la paura ci sarà indipendentemente da quello che fa l’amigdala.

L’esperienza potrebbe avere una maggiore intensità quando l’attività dell’amigdala è elevata e produce un’eccitazione nel cervello e nel corpo, ma questo sarebbe come un aumento di volume della paura e non modificherebbe la sua essenza, cioè la consapevolezza che tu sei a rischio di farti male. Perciò forse Honnold si arrampica perché l’attività della sua amigdala è sempre stata bassa e di conseguenza non riceve quei segnali che intensificano l’esperienza, ma forse, facendo molta arrampicata, l’ha esercitata a tenere una bassa attività e di conseguenza il suo cervello riceve un minore feedback dal corpo durante questa attività ed è meno eccitato.

Il punto è: che cosa fa l’amigdala per la paura? Non determina se sentirai paura; amplifica l’intensità delle esperienze che tu consideri spaventose.


PP: Quindi cos’è la paura?


JLD: Andiamo più nel dettaglio. La paura, secondo me, è il completamento di uno schema cognitivo della paura che hai nella mente. C’è un serpente ai tuoi piedi, perciò un segnale di pericolo arriva alla tua amigdala e induce una risposta e un’eccitazione del corpo. Inoltre, il segnale di pericolo passa per la tua corteccia visiva e da lì all’ippocampo e alla neocorteccia, dove si riattivano i ricordi dei serpenti. I circuiti prefrontali della memoria elaborano lo stimolo, i ricordi e il feedback proveniente dall’eccitazione nervosa e corporea. Tutto questo si combina a formare lo schema della tua paura, un complesso di tutto quello che hai imparato nella tua vita a proposito delle cose pericolose. Questo schema include il modo in cui normalmente reagisci al pericolo, come ti aspetti di rispondere a questa particolare situazione e come ti aspetti che gli altri reagiscano rispetto a te. Se si tratta di una situazione sociale entrano in gioco altri fattori. Una volta che lo schema è stato completato diventa la base della tua esperienza. Quindi, dato che ognuno ha un diverso schema della paura, ognuno avrà una specie unica di paura.

Facciamo un altro esempio. La mia collega Liz Phelps ha studiato una paziente con un danno bilaterale all’amigdala. La donna diceva “sì, sono spaventata, ho paura.” Ma diceva anche che non sudava. Questa donna si forma il suo schema della paura, la consapevolezza di un vicino pericolo. Il fatto che il suo corpo non reagisca non significa che non sia spaventata.

PP: La paura quindi ha a che fare anche con la cultura individuale oltre che con la natura?

JLD: La ragione per cui concetti come quello di paura sono comuni è che ciascuno fa esperienza del pericolo nella nostra cultura e la ragione per cui si trovano in tutto il mondo è che ogni cultura fa esperienza del pericolo. In ogni cultura ci sarà una parola per quell’esperienza. Ma ciò che si prova in Giappone, in Italia o a New York potrebbe essere un po’ diverso. Poiché abbiamo una parola, abbiamo una comprensione culturale di cosa sia la paura. Ma in fondo gli individui all’interno della nostra cultura hanno esperienze diverse a causa del loro diverso schema della paura e lo stesso vale per individui di culture diverse.

La paura, quindi, non è determinata da quel che emerge dall’amigdala, si tratta piuttosto di ciò che ciascuno proietta sulla situazione con il proprio schema cognitivo della paura. Lo schema fornisce una traccia che guida la nostra azione in situazioni pericolose. Si tratta di azioni, non di reazioni: le azioni sono prodotte in base a modelli mentali e deliberazioni, che includono aspetti coscienti e inconsci.

Queste idee sono state elaborate da me e Nathaniel Daw in un articolo del 2017.


PP: L’ansia è invece un’emozione molto comune che può portare a diverse patologie. Nel tuo libro Ansia e in articoli successivi hai suggerito un nuovo approccio al problema fondato sulla tua “teoria dei due sistemi”, sostenendo che la neuroscienza ci può suggerire anche un approccio alla terapia dell’ansia.


JLD: L’idea dei due sistemi è quella menzionata sopra:

i circuiti neurali che stanno alla base delle esperienze emotive coscienti sono diversi dai circuiti che controllano il comportamento che avviene mentre abbiamo le emozioni. In presenza di uno stimolo pericoloso o ansiogeno si attivano entrambi i sistemi.

Questo spiega perché gli approcci farmacologici all’ansia sono parzialmente inefficaci. Se prendi un farmaco, questo agisce sulle tue reazioni fisiche ma non cancella il sentimento dell’ansia.

Bisogna considerare poi che la ricerca in questo settore si è basata sullo studio dei comportamenti controllati dall’amigdala e da altri circuiti subcorticali nei roditori. Se le emozioni sono prodotte da complessi circuiti corticali che presentano caratteristiche uniche negli umani, si capisce che i farmaci sviluppati con esperimenti sui roditori non avranno efficacia nel cambiare i sentimenti soggettivi di paura o ansia nell’uomo. Questo non vuol dire che questi farmaci siano inutili. Una persona che soffre di ansia sociale e che va a una festa sotto l’effetto di un farmaco sentirà ancora uno stato di paura o di ansia, ma potrebbe avere un comportamento meno timido e meno agitato. È importante quindi che ci sia una terapia per entrambi i sintomi, soggettivi e comportamentali. Diverse specie di terapia potrebbero servire a modificare i circuiti neurali corrispondenti.


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