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  • Immagine del redattoreDott.ssa Margherita Zorzi

Divagazioni sull’identità


Abstract

Viene differenziata l’identità emozionale, fondata sul pensiero polisemico, dall’identità organizzata dal principio di identità, appunto e da quello di non contraddizione. Qui l’identità consiste nel riconoscere che “Io sono Io” e “Io non sono l’altro”. Si propone, quindi, la differenziazione tra conoscenza, propria del modo di essere inconscio, e riconoscimento che organizza l’identità e la relazione con l’altro: riconoscersi e farsi riconoscere.

Parole chiave: identità; riconoscimento; desiderio; polisemia


L’identità emozionale L’inizio del Vangelo secondo Giovanni: «In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum et

Deus erat Verbum».

All’inizio c’era la parola, polisemica.

In principio, da princeps, che vale prendere il primo (posto), dare inizio. Ma l’inizio è il cominciare, un tempo senza tempo, come i sette giorni della creazione biblica. Siamo nell’assenza di tempo, quindi in una modalità di pensiero ove non c’è tempo, non c’è negazione, ove la necessità sostituisce lo scandirsi del pensiero consapevole. Siamo confrontati con la continuità emozionale, che non conosce relazioni spaziali o temporali, che tende a non differenziare ma a rendere tutto eguale e indivisibile.

La parola (polisemica) era presso Dio.

Presso come contiguità (metonimia) o come somiglianza (metafora), capaci di confondere emozionalmente le cose che sono vicine o simili; rendendo le due cose una stessa cosa. La parola era presso Dio e Dio era la parola. La parola polisemica si fa totipotente e “diventa” Dio.

All’inizio c’è la conoscenza: il verbo, la parola. Quale parola?

Io.

Io come conoscenza emozionata, totipotente e polisemica. Io sono. Io posso. Io, io, io e ... gli altri, come diceva Blasetti nel titolo di uno dei suoi ultimi film, del 1966.

Io è conoscenza polisemica, quindi emozionale. Entro la logica del sistema inconscio, Io può essere tutto, può essere Dio. La totipotenza divina consente ogni tipo di trasformazione di Io, sino all’infinito omogeneo indivisibile.

IO era una giovane fanciulla di Argo, che fu amata da Zeus. Sacerdotessa di Era argiva, si recò sulle rive del lago di Lerna (conosciuta per l’Idra di Lerna, il serpente marino dalle molte teste che Eracle uccise nella sua seconda fatica) come le era stato comandato in un sogno. Qui si abbandonò agli amplessi di Zeus che la trasformò in giovenca per sottrarla alla vendetta di Era, la moglie di Zeus e dea alla quale IO s’era dedicata. Era, peraltro, conosceva la metamorfosi e affidò quindi IO, sotto le specie di giovenca, alla custodia di Argo, il gigante dai cento occhi. Ermes, inviato da Zeus, liberò IO inducendo Argo, con una bacchetta magica, a chiudere per il sonno anche i suoi cinquanta occhi vigili; Argo dormiva chiudendo solo la metà dei suoi molti occhi. Ma le persecuzioni di Era non erano terminate. Punta da un tafano inviato da Era, IO sotto forma di giovenca percorse gran parte dell’Europa e dell’Asia, in preda a una furia che la condannava a correre senza mai fermarsi. In questo suo peregrinare IO diede origine a molti miti: da lei prese il nome un mare della Magna Grecia, il mare Ionio; evocando il suo passaggio, venne dato il nome di Bosforo allo stretto che separa (o congiunge?) Europa ed Asia: Bosforo significa, infatti, passaggio della giumenta. IO si fermerà in Egitto dove, riprese le sembianze umane, darà alla luce il figlio concepito con Zeus: Epafo, che poi regnerà sull’Egitto e, alla sua morte, prese le sembianze del dio Api, divinità egizia raffigurata sotto le specie di un toro.


IO fu oggetto di contesa tra i due coniugi divini, Zeus ed Era. Perché IO era presso Dio.

La leggenda di IO inizia con un sogno; un sogno al quale la giovane sacerdotessa “deve” obbedire. Si può confondere la leggenda con il sogno: un evento totipotente, una sorta di spazio anzi entro il quale le dimensioni categoriali si confondono e propongono la loro ambiguità originaria: IO è Dio, Zeus; si confonde con Dio nell’amplesso generatore. La madre Era, esclusa dalla fusione tra la fanciulla e il Dio, fa impazzire IO trasformata in giumenta, animale sacro e associato alla fertilità. Ancora una follia, come quella di Edipo, come le infinite altre pazzie che conseguono alla confusione. Una pazzia che condanna alla corsa convulsa, al movimento senza scopo né meta. È la metamorfosi di IO in animale scatenato che fonda questa manifestazione insensata di forze “animalesche” senza freno e senza obiettivi, una sorta di frenesia incontrollabile che consegue alla fusione di IO con Dio. Ma, come dice Galasso (1988), siamo ancora al tempo della metamorfosi reversibile come quella di Prometeo liberato da Eracle. IO “si risveglia” dal sogno in Egitto, dove mette al mondo un bambino.


Qui siamo confrontati con l’identità confusiva e onnipotente che fonde Io con Dio, che può tutto in una sorta di confusione tra condizione infantile, sessualità, generatività, pazzia, persecutorietà, senza spazio e senza tempo.


È la continuità espressa dalla corsa pazza della giumenta attraverso tutte le terre conosciute, in un errare che ricorda quello di Europa, ma anche di Eracle e di tanti eroi della mitologia.

Il movimento senza senso e senza meta, ben rappresenta il modo d’essere omogeneo e indivisibile del quale parla Matte Blanco, ove non c’è alcuna possibilità di stabilire relazioni, ove tutte le differenze vengono assorbite entro una funzione di omogeneizzazione, di destrutturazione di ogni rapporto e quindi di ogni identità marcante la differenza. Questa componente dell’identità è importante, perché motiva all’esplorazione del mondo; un’esplorazione che non sarebbe possibile entro una mente capace solo di stabilire rapporti, di misurare, di evidenziare convenienze e controindicazioni. Ma la sola modalità inconscia non consentirebbe la vita, non sarebbe in grado di pianificare tentativi di adattamento alla realtà contestuale. Per il modo d’essere inconscio della mente il contesto non esiste, la realtà viene assimilata al sogno onnipotente, tutto è possibile perché non ci sono eventi, perché ogni atto equivale al suo contrario, annullandosi. Siamo confrontati con la dinamica emozionale, che pone le basi per l’identità, ma al contempo la disorganizza entro l’indivisibilità polisemica.


L’identità come riconoscimento

Il principio di identità, assieme a quello di non contraddizione, fonda la logica del pensiero asimmetrico, dividente ed eterogenico; il principio di identità dice che A è A. Per il principio di non contraddizione, A è diverso da B. Io sono Io.

Io non sono l’“altro”.

Nel Vangelo di Giovanni, di contro: Io sono Dio, sono tutto, perché l’altro non esiste in quanto è eguale a Io, quindi è Io. Nella totipotenza non c’è rapporto, perché la relazione richiede un limite e una discontinuità: il limite che si riconosce quando si distingue Io dall’altro. Se si guarda al modo di essere inconscio della mente, l’identità emozionale concerne solo e soltanto “Io”.

L’identità della quale stiamo parlando, di contro, implica un pensiero su “Io”, quindi un riconoscere “Io”. Un riconoscerlo come “Io”. L’identità nasce dal riconoscere me stesso come me stesso. L’identità come riconoscenza, come pensiero sulla conoscenza. Ma l’identità comporta anche il riconoscimento dell’altro, secondo il principio di non contraddizione. Se Io sono Io, Io non sono l’altro. Riconoscere significa stabilire relazioni tra sé e l’altro: relazioni emozionali. È importante differenziare il riconoscere, Io sono Io e non sono l’altro, dalla tautologia tanto cara agli strali di Roland Barthes; Racine è Racine: meravigliosa sicurezza del nulla. La tautologia fa sempre riferimento alla rottura rabbiosa fra la nostra intelligenza e un oggetto fuori di noi: la Roma è la Roma, Berlusconi è Berlusconi, per i leghisti Bossi è Bossi, a indicare una fede profonda, indiscutibile. Il riconoscere fa riferimento all’atto riflessivo su di noi. La differenza tra conoscere e riconoscere è fondamentale per cogliere il senso dell’identità come riconoscimento.


Riconoscere

È l’atto riflessivo sulla conoscenza. È l’atto che sta alla base della conoscenza intellettiva. Guardiamo ai derivati linguistici di riconoscere: riconoscente e riconoscenza, riconoscersi, riconoscibile, riconoscimento, riconoscitivo, riconoscitore, riconosciuto.

La simbolizzazione affettiva intenziona le cose, le rende emozionalmente presenti nella mente.

Il modo d’essere inconscio della mente ha una rilevanza fondamentale nella vita di ciascuno di noi: consente di simbolizzare emozionalmente ogni aspetto della realtà, dal proprio corpo agli “oggetti” che incontriamo entro il contesto in cui viviamo, conferendo a ciascun aspetto della realtà una coloritura emozionale fondante la conoscenza e capace di orientare l’azione. Senza questo modo di conoscere, diverso dalla conoscenza categoriale che orienta il pensiero, non si darebbe nemmeno il pensare e la costruzione sociale che il pensare rende possibile. Senza la conoscenza emozionale di Io totipotente, non si darebbe il riconoscere l’Io come Io. Tra conoscenza emozionale, fondata sul modo inconscio, e conoscenza fondata sul pensiero categoriale si pone, quindi, una stretta connessione. Le simbolizzazioni emozionali possono subire una duplice elaborazione: possono essere pensate, vale a dire riconosciute, o agite. Ogni simbolizzazione emozionale “preme” per una sua elaborazione, in quanto mette in allarme il sistema psichico: si pensi, ad esempio, al confuso vissuto di pericolo che deriva dalla simbolizzazione nemica di un qualsiasi aspetto della realtà; di fronte al nemico simbolico si può agire, attraverso l’attacco – fuga, o si può riconoscere il motivo che ha portato a tale simbolizzazione. Simbolizzare affettivamente un aspetto della realtà, peraltro, significa categorizzarlo emozionalmente entro classi emozionali a forte pregnanza affettiva:

se si simbolizza la convivenza (entro i contesti aziendali, entro il traffico, la scuola, le relazioni amicali, l’università) quale occasione di rivalità e di conflitto con gli altri, vissuti come competitori entro dinamiche del tipomors tua, vita mea oppure mors mea, vita tua, questa conoscenza emozionale, ad esempio nel traffico, rende pericolosa la guida di un’automobile, trasforma ogni sorpasso in una questione di vita o di morte; trasforma la convivenza in una lotta tra gladiatori, nell’arena della competitività.


Agire questa fantasia, significa eliminare ogni pensiero, ogni riconoscimento circa l’emozione, significa reificare il contesto di convivenza come competitività senza limiti. Quando l’emozione simbolica viene agita, soprattutto se questo agito trova risposte collusive da parte degli altri interlocutori (collusioni agite o supposte, entro una trasformazione simbolicamente competitiva di qualsivoglia atto dell’altro, vissuto come parte di sé perché nella conoscenza emozionale c’è solo l’Io), si rende impossibile ogni pensiero, inteso quale riconoscimento delle proprie e delle altrui emozioni. L’agito delle simbolizzazioni affettive elimina il pensiero. Al contempo, può trascinare l’altro entro dinamiche di relazione prefigurate dalla simbolizzazione, quindi entro binari che, pur mancando di ogni costruttività fondata sul pensiero, rassicurano rispetto alle incognite della relazione.


...


Per proseguire la lettura si rimanda a

http://www.rivistadipsicologiaclinica.it/ojs/index.php/rpc/article/view/188/259

 

*Già professore ordinario di Psicologia clinica presso la Facoltà di Psicologia 1 dell’Università “Sapienza” di Roma, membro della Società Psicoanalitica Italiana e dell'International Psychoanalytical Association. Direttore della Rivista di Psicologia Clinica e della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Psicoanalitica – Intervento psicologico clinico e analisi della domanda.




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